7 agosto 2022

Il mio nome è Ofelia [Stefano Beccastrini]


Il 24 luglio del 2022
- nel medesimo giorno in cui Pierfrancesco Bigazzi
ha vinto con il suo "Ofelia" il Primo Premio di miglior Cortometraggio e il Premio del Pubblico
al Pop Corn Festival dei Corti di Porto Santo Stefano -
moriva a San Giovanni Valdarno
sua nonna Ofelia Borgheresi,
che quel film aveva ispirato.




PROEMIO. PER UN CINEMA DI POESIA

Ho cominciato a scrivere testi sul cinema, per Diari di Cineclub, nell’ormai lontano 2014, quando la pandemia era di là da venire e cambiare il mondo. Da allora ho pubblicato sulla nostra rivista, mese dopo mese, un’ottantina di articoli (spero, un giorno, di poterli raccogliere in volume tutti quanti o almeno una buona parte di essi) dedicati ai molti aspetti del cinema medesimo. Su questo numero di Diari parlerò, tuttavia, di un argomento del quale non mi ero, finora, mai occupato: un corto ossia uno short documentary (soltanto undici minuti). Ne è autore un filmmaker toscano, ancora molto giovane e dunque, per adesso, poco noto al grande pubblico: Pierfrancesco Bigazzi, vive a San Giovanni Valdarno, è laureato in lettere e filosofia e son convinto che presto diventerà famoso. Il titolo del film - selezionato al Torino Film Festival 2021, ove è stato proiettato e molto applaudito la sera del 1 dicembre scorso - è Ofelia. Narra - anzi canta, come s’usava dire una volta in riferimento ai poeti - una giornata della vita d’una anziana donna ormai ultranovantenne che è la sua nonna paterna, cui egli è rimasto vicino, vivendoci assieme, per tutto il periodo del lockdown da pandemia. Il film mi pare in realtà un carme filmato, un componimento poetico fattosi grande cinema, un raro e prezioso frutto di quella rinascita del “cinema di poesia” (l’espressione credo sia pasoliniana) che s’intravede nel panorama alquanto prosaico dell’attuale cinema italiano. Susan Sontag, una saggista dei cui libri sono da decenni un appassionato lettore, scrisse nel 1967 (ossia quando Pierfrancesco non era neppur nato ed io ero un giovanissimo studente dell’Università di Firenze) che “Il valore più alto e più liberatore che esista nell’ arte… è la trasparenza. S’intende per trasparenza il fare esperienza della luminosità della cosa in sé, delle cose per quelle che sono”. Ecco, la trasparenza – e, io aggiungerei, la tenerezza – sono i veri pregi di Ofelia, ciò che ne costituisce la suprema bellezza. La trasparenza e la tenerezza sono sempre processi di ricerca della bellezza alla fin fine umili e semplici, e per questo sublimi: come i quadri d’interni di Jan Vermeer e di Edward Hopper, come il cinema di Ozu e di Rossellini, come le poesie di Umberto Saba e di Giorgio Caproni.

2 “COME TI CHIAMI?” “BORGHERESI OFELIA”.

Mi ha detto l’autore del film (che ho la fortuna di conoscere e frequentare da quando è nato) in un recente colloquio: “Fare questo film è diventato, con Ofelia, un gioco. Nei giorni in cui non giravamo era lei a chiedermi quando sarebbe arrivato il momento in cui l'avessi ripresa ed ella si sarebbe trasformata in un’ attrice. E’ stata la mia Eleonora Duse, elegante e caparbia. Ho condiviso la mia passione con lei in tutto e per tutto”. Il film inizia mostrando un servizio da tè di peltro poggiato su un tavolo. E’ l’alba. L’appartamento tace, ancora in penombra. La scena, immobile, mostra l’interno di un salotto che la luce di un nuovo giorno, filtrando da una tapparella, comincia a rischiarare. La stanza è vuota ma da sinistra entra in scena, spostandosi lentamente, con passo incerto ma nobilmente austero, verso destra ove si trova la finestra, una donna anziana con addosso una vestaglia azzurra e blu. Guarda fuori e l’obiettivo ne filma il volto: intenso, pieno di rughe ma che s’indovina essere stato assai bello. E’ assorto, vagamente mesto. Lo sguardo, vigile e attento, sembra scrutare il mondo, interrogarlo, domandarne risposte. Compare il titolo del film, Ofelia, sul quale si comincia a udire una voce femminile – quella di Ofelia, appunto - recitare un’ antica filastrocca fiorentina che si usava cantilenare sfiorando con le dita il palmo della mano dei bambini: “Mano mano piazza/ci passò una lepre pazza…” e il film mostra una mano rugosa, quella di Ofelia appunto, che carezza, solleticandola, una mano giovanile, quella di Pierfrancesco, suo nipote e autore del film. Il testo autentico della filastrocca sarebbe “Mano mano piazza/ci passò una lepre pazza/Il primo la vide/il secondo l’ammazzò/il terzo la cucinò/il quarto se la mangiò/e al quinto, poerino,/non gliene lasciarono nemmeno un pezzettino. Ofelia s’imbroglia, non ricorda bene l’intera filastrocca, il suo volto si rattrista ancora di più. Pierfrancesco - di lui, nel film, s’ode talora soltanto la voce, talaltra si vedono le sole mani – le domanda: “Come ti chiami?”. La risposta, pronta e decisa, è: “Borgheresi Ofelia”. L’altra voce commenta: “E’ un bel nome”. “Non so – ella replica, dando avvio a un discorso piuttosto lungo, detto con l’orgoglio di chi ha saputo affrontare la vita con intelligente saggezza e generosa fierezza – Io sono sempre stata molto rispettata dagli altri… Ho avuto due mariti, uno mi è morto molto giovane, non ne ricordo neppure il nome…Non sono mai stata una chiacchierona…parlavo quando era necessario parlare…e anche scherzare e ridere, l’ho fatto soltanto quand’era necessario farlo…”. Accenna l’aria e le parole di una canzone (Vivere: fu scritta nel 1936 da Cesare Andrea Bixio, il quale fu autore anche della indimenticabile – soprattutto per noi cinefili - Parlami d’amore Mariù) che andava di moda quand’ella era giovane: “Ridere perche così giocondo…” e prosegue, confondendo le parole ma continuando a intonare la medesima aria musicale e dunque prendendosi in giro con consapevole ironia. “Non me ne ricordo più davvero/per gioire tutto il mondo”. Non rammenta più il testo e ci resta male: “Saranno cinquant’anni che non la canto” commenta infine. Cambia la scena, passa dal primo piano al grandangolo: Ofelia è distesa su un divano, in fondo alla stanza e come prigioniera di due poltrone in primo piano che il grandangolo rende enormi. Urla: “Basta! Non mi voglio più arrabbiare! Voglio sorridere, essere felice. Voglio andare via, lontano da questo pezzo di terra che non mi dice più nulla”. Ho domandato a Pierfrancesco se quello sfogo esprimesse un sentimento di morte, di stanchezza estrema, di volontà d’annichilimento: mi ha risposto – come mi aspettavo – che anzi, nonostante la rabbiosità iniziale, “esso era un inno alla vita nella sua vera essenza, quasi ancestrale, voler essere qualcosa di più grande che un corpo. Forse solamente Essere. E lei lo ha completamente improvvisato, sfuggendo alle mie indicazioni registiche che la volevano triste...”.
Nel film, a questo punto, Pierfrancesco fa vedere a Ofelia una fotografia che ritrae tre persone, due giovani uomini e una bambina: il figlio secondogenito di Ofelia, la sua figlioletta e dunque nipotina di Ofelia, il figlio di Angelo, secondo marito di Ofelia. Ella non li riconosce ma non si rattrista, è contenta che ci siano, appare più serena, si reca in terrazza a guardare San Giovanni Valdarno ormai immersa tutta quanta, oltre che nell’azzurro intenso d’una sera estiva, nel silenzio spettrale del lockdown da Covid. L’obiettivo mostra nuovamente il volto della donna: ancora intenso, ancora attento ma più disteso e calmo. Quel pezzo di terra in cui vive, adesso le appare più ameno, più accogliente. In alto sulle colline splende candida una benevola, toccante luna leopardiana. La macchina da presa si sofferma su di essa, pare domandargli: “Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai/silenziosa luna”. Rientrata nell’appartamento, Ofelia consuma una cena frugale con pochi biscotti di riso e si prepara per la notte, indossando gli indumenti adatti. Poi si assonna, in un’immagine toccante che la mostra dolcemente rannicchiata, come una bambina dormiente.
L’immagine successiva mostra la mano giovanile di Pierfrancesco che le stringe e carezza la mano rugosa. L’accompagnerà nel viaggio notturno alla ricerca di sé. Poi il buio giunge e s’impone (per pochi attimi, oscurando lo schermo, anche sul film). Ofelia precipita nel nero della notte e tutti noi con lei, ma la sua mente continua a lavorare, a cercarsi. E qui inizia, nell’oscurità apparentemente addormentata della sua mente e in quella della casa appena rischiarato da una lampadina e dalla proiezione di vecchi filmini in Super8, la seconda parte, l’ultima e finale, del corto. Quei filmini mostrano tempi felici ormai tracsorsi e lontani, bimbi d’un tempo ormai remoto che giocano, Ofelia giovane e radiosa – a me ha ricordato Ava Gardner, attrice che amavo tanto - che saluta da un natante. Agiscono, io credo, sul suo inconscio, sulla sua memoria infranta ma miracolosamente recuperata proprio grazie al cinema. Nell’inquadratura finale, ella afferma decisa, da donna che è orgogliosa di quel che sta affermando: “Il mio nome è Ofelia”.
Mi ha detto Pierfrancesco: “E’ iniziato tutto con il ritrovamento delle vecchie Super 8 di mio nonno Piero, che sfortunatamente non ho mai conosciuto, ma da quel che mi hanno raccontato grande appassionato di cinema. Ho colto l'occasione di tessere una storia intorno a Ofelia... Ma il mio corto è anche una dichiarazione di durevole amore per il Cinema, visto che proprio di questo parliamo, di ricordi filmici. Con le Super 8, il buio e quella lampadina che illumina la casa e i suoi oggetti, che sono sempre ricordi di un tempo passato, entriamo in profondità, come un sogno, ma anche come nel profondo dell'inconscio, o in qualsiasi parte della nostra mente dove sono nascosti i nostri ricordi. Ed è lei che li cerca, li scruta e alla fine si materializzano in immagini e colori che la inondano di felicità. Si è ritrovata, lei è Ofelia”.

3. UNA CONCHIGLIA. CONCLUSIONI

Il finale ha per colonna sonora una canzone meravigliosamente malinconica quale Conchiglie di Andrea Laszlo De Simone (musicista e cantautore torinese di originale ispirazione). Ha detto Pierfrancesco: “Il testo di questa canzone mi sembrava perfetto per il film: Ofelia è una conchiglia, trasportata dall'acqua e dal tempo, ma le conchiglie possono essere anche ricordi, nascosti da qualche parte nel bagnasciuga, che con le onde del mare affiorano dalla sabbia e scompaiono di nuovo. Però la canzone parla anche di resistere, di lottare, di non rintanarsi in se stessi. Il film tratta della resistenza di Ofelia, del suo non abbandonare”. Chissà se De Simone sapeva, quando scrisse Conchiglie, che gli ultimi versi di una delle più belle poesie del Novecento europeo (Una notte con Ofelia di Vladimir Holan, poeta realistico/metafisico praghese) evocano proprio il dono che una donna fa al poeta: “Ed ecco, qualcuno suonò il campanello ed io/molto imbarazzato: ‘Sarà l’esattore del gas,/è venuto già altre volte,/vuole i soldi./ ‘E lei li ha?’ domandò e senza/attendere risposta, mise la mano alla borsetta/e posò sul tavolo diverse conchiglie variopinte”. La donna evocata da Holan – un’attrice – si chiamava appunto Ofelia: ella rappresentava dunque una delle rare, tutte potenti, incarnazioni poetiche delle portatrici di quel mitico nome. “Ofelia” viene dal greco e vuol dire “colei che aiuta il prossimo, che assiste gli altri, che fa loro dei doni”. Il primo a parlarne fu, tra il Quattrocento e il Cinquecento, l’umanista italiano Jacopo Sannazaro nella sua Arcadia. Da lui, quasi certamente, trasse ispirazione William Shakespeare per creare, agli inizi del Seicento, l’indimenticabile personaggio della donna amata, nel suo Amleto, dal pallido principe danese. In seguito, altri artisti – pittori (John Everett Millais e William Waterhouse, per esempio), musicisti (Robbie Robertson e Francesco Guccini, per esempio), poeti (Arthur Rimbaud e Vladimir Holan, per esempio) – le dettero vita, la celebrarono, la cantarono. Più recentemente, in quello scelto gruppo di artisti sono entrati anche i cineasti: da Claude Chabrol a, per esempio, Pierfrancesco Bigazzi. Da quest’anno, insomma, si aggiunge allo sparuto ma insigne gruppo degli artistici celebranti l’indimenticabile personaggio di Ofelia anche il giovane filmaker italiano la cui nonna, Ofelia Borgheresi, diventa grazie a lui una nuova, contemporanea versione poetica della “donna che aiuta gli altri”.

Stefano Beccastrini

[ questa è la versione ampliata dell'articolo pubblicato originariamente su Diari di Cineclub n. 101 - gennaio 2022 - https://www.cineclubroma.it/diari-di-cineclub-roma/diari-di-cineclub ]
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