7 giugno 2024

Il cinema e la medicina [Stefano Beccastrini]



A proposito del libro di Stefano Beccastrini “La medicina è ben poca cosa? – Riflettere sull’arte della cura con l’aiuto del cinema”, Aska Edizioni, 2023


La medicina attuale soffre di due limiti che certamente non son tali da ridurla a “ben poca cosa” - come afferma il dottor Barbarossa nel bel film di Akira Kurosawa di cui egli è protagonista - ma che, tuttavia, ne tarpano il trionfalismo. Il primo riguarda la sua disattenzione per i cosiddetti determinanti extra-sanitari della salute: la carente protezione del lavoro, la scarsa tutela dell’ambiente, il frustrato anelito alla giustizia sociale, la mancata sollecitudine nel salvaguardare quegli aspetti della vita economica e politica che danneggiano la salute. È chiaro che lo si può fare, noi medici, soltanto imparando a cooperare, e non necessariamente in maniera egemonica, con i molteplici portatori di altri saperi e di altre competenze. Il secondo riguarda la scarsa capacità della, legata spesso al disinteresse per la, comunicazione con il paziente (e anche, ma è cosa diversa, con quell’ insieme di pazienti reali o potenziali che è la comunità locale, la società, l’opinione pubblica). La comunicazione nasce quando due esseri umani sono entrambi interessati a ciò che l’altro cerca di esprimere. Il resto è chiacchiera ossia saper vendere e vendersi sul mercato. Il cinema può rappresentare per la medicina, in tal senso, un utile strumento di riflessione.

Chi ha inventato il cinema? E dove? E quando?
Un’annosa polemica divide americani e francesi: i primi dicono sia stato il loro connazionale Thomas Alva Edison con il kinetoscopio, costruito nel 1894 negli studi di Black Maria in New Jersey: uno scatolone nel quale, guardandovi dentro, uno spettatore per volta poteva vedere immagini in movimento. Ma se con cinema s’intende l’ingresso di vari spettatori in una sala per assistere, tutti quanti seduti, alla proiezione di un filmato non c’è dubbio che l’abbiano inventato i fratelli Lumiére, francesi di Lyon.
A Parigi, la sera del 28 dicembre 1895, presso il Salon Indien del Gran Cafè di Boulevard des Capucines, Louis e Auguste Lumiére presentarono per la prima volta, a un pubblico di soli 33 spettatori (in seguito diventati milioni), la loro invenzione: il cinematografo.
Esso rivelò ben presto la propria vocazione ad avere a che fare con la medicina.
Prima di tutto perché dalle scienze biomediche era attratto uno dei due fratelli, Auguste. Nel 1954, ormai novantenne, egli ricordò che, disinteressato al cinema quale espressione artistica, si era dedicato soprattutto “…alla biologia, alla fisiologia, alla patologia, alla medicina…”.
Aveva anche interpretato il ruolo di un medico nel film Pasteur, 1922, un biopic (ossia un biographical picture, un film biografico) sul grande microbiologo. La regia era di Jean Epstein, uno dei primi “padri” del cinema d’oltralpe.
Ma non soltanto dagli interessi clinici di Auguste nacque l’utilizzo del cinema quale strumento di ricerca, divulgazione e didattica in ambito medico. Per esempio, anche il celebre chirurgo francese Eugene Doyen – quello delle “pinze di Doyen” – già nel 1898 mostrò ai propri studenti, prima a Edimburgo e poi a Parigi, filmati girati a scopo illustrativo in una sala operatoria durante un intervento chirurgico.
Nell’anno, appunto il 1895, in cui i Lumiere presentarono in pubblico i loro filmati, avvennero due fatti che influenzarono fortemente la relazione tra il cinema e la medicina.
Nella notte tra il 23 e il 24 luglio di quel medesimo anno, un neurologo viennese di nome Sigmund Freud analizzò per la prima volta un proprio sogno relativo a una paziente e su quella iniziale “interpretazione dei sogni” egli costruì poi tutta la complessa architettura ermeneutica della teoria psicoanalitica. Il sogno di Freud riguardava il “caso di Irma o dell’iniezione” e il vero nome della paziente era Emma Eckstein.
La psicoanalisi incontrò presto il cinematografo: se Freud rifiutò sdegnato la richiesta di alcuni cineasti espressionisti di fare da consulente psicoanalitico dei loro film, nel 1926 un suo allievo, Karl Abraham, accettò di collaborare alla sceneggiatura del primo psicofilm della storia del cinema, I misteri di un’anima di Georg Wilhelm Pabst.
Ebbe così inizio un’attrazione, tra psicoanalisi e cinema, che ha generato nel corso degli anni centinaia di film sul tema dei disturbi mentali, sia trattati con metodi psicoanalitici che più latamente psichiatrici (si veda il testo di Glen e Krin Gabbard Cinema e psichiatria, scritto a quattro mani da un importante psichiatra americano e da sua sorella, storica del cinema).
Nel medesimo 28 dicembre del 1895 - proprio mentre i Lumiére presentavano a Parigi i loro primi filmati - a Wurzburg in Germania, ove abitava e insegnava fisica presso la locale università, uno scienziato di nome Wilhelm Roentgen comunicò alla Physikalisch-Medizinische Gesellschaft di aver scoperto (per caso, nell’eseguire un esperimento con i raggi catodici) una nuova radiazione che fu chiamata, per la sua misteriosità, Raggi X. La prima radiografia, divulgata nel mondo intero, mostrava le ossa della mano sinistra della signora Bertha Roentgen, la quale esclamò turbata: “Ho visto la mia morte!”. Ella fu, infatti, il primo essere umano della storia che abbia potuto vedere il proprio scheletro.
In molti teatri, per qualche anno, i raggi X furono mostrati agli spettatori, assieme ai filmati dei Lumiere, quali spettacolo popolare e procurando loro, involontariamente, anche danni da radiazioni. Essi, peraltro, divennero presto un’importante risorsa clinica: già nel 1896, negli Stati Uniti, si usò una lastra radiologica per diagnosticare la frattura di una gamba.
Giorgio Cosmacini, massimo studioso nostrano di storia e filosofia della medicina (due discipline che, in Italia, interessano poco agli stessi medici) ha definito Roentgen “il fotografo dell’invisibile”.
Freud aveva scoperto l’inconscio, il lato oscuro, non razionale di ogni essere umano. Roentgen aveva mostrato, dell’essere umano, lo scheletro osseo e dunque il suo duraturo “lato mortale”. L’uno e l’altro divennero, anche grazie al cinema, due suggestivi topoi di particolare spessore culturale nell’immaginario collettivo della Modernità.
Ma chiediamoci: come reagì la medicina al diffondersi del cinema e al suo mostrare un crescente interesse nei suoi confronti? All’inizio, molti medici reagirono piuttosto male: essi affermarono infatti che quel curioso strumento provocava varie malattie, da quelle della vista (la cosiddetta cineoftalmia, sindrome oculare da scintillio della luce di sala) a quelle mentali (il cinema fu definito “un vampiro succhiatore di cervelli, bevitore di anime, rapitore di coscienze”).
Tuttavia ci furono, presto, anche medici che lo considerarono addirittura un pharmakon, un agente terapeutico: nel 1917 l’americano Fred W. Philips, in un articolo intitolato Il valore terapeutico del film, ipotizzò che il cinema potesse costituire un rimedio di particolare ed economica efficacia. In anni più recenti, la vecchia idea di Philips è andata vieppiù prendendo campo e, prima negli Stati Uniti eppoi anche in Italia, si è cominciato a parlare di “cinematerapia”. Il suo iniziatore è considerato il dottor Gary Salomon, autore nel 1995 di The Motion Picture Prescription.
Il tema dell’utilizzo – variamente finalizzato - del cinema da parte della medicina resta comunque aperto e affascinante. Personalmente, ritengo che esso possa rivelarsi utile non tanto (o in casi molto rari) quale strumento di cura bensì quale efficace metodo di formazione per lo sviluppo delle competenze mediche, soprattutto di quelle legate all’affermarsi della Narrative Medicine (una “filosofia” della pratica medica teorizzata nel libro Medicina narrativa di Rita Charon, medico internista e studiosa di letteratura, docente alla Columbia University di New York).
In Italia, uno dei primi esperti di medicina narrativa (o “medicina basata sulla narrazione” che dir si voglia) è stato il da poco scomparso Giorgio Bert – grande medico, valente giallista, appassionato cinefilo - alla cui memoria il libro di cui sto parlando è dedicato.
“Consentire al paziente di narrare la propria malattia con le sue parole – egli ha scritto - permette di aprire uno spiraglio su quelli che sono i suoi timori, il suo sistema di valori e di priorità, le sue ipotesi diagnostiche e causali, le sue aspettative, il suo immaginario terapeutico…”. Occorre considerare qualunque incontro dialogico tra un medico e un essere umano sofferente, insomma qualunque cosiddetta visita medica, l’occasione per avviare la costruzione di una narrazione a due voci, portatrici entrambe di una storia. Andrà a saldarsi così una nuova, moderna alleanza tra sanità e comunità locale. Fondamento organizzativo di essa dovrebbe essere non l’attuale carrozzone buro-aziendalistico ma un servizio sanitario realmente nazionale e universalistico, non poggiato sui piedi d’argilla d’un iniquo sistema fiscale. Insomma, volto davvero a combattere contro la malattia, la sofferenza, la morte e soprattutto la loro ingiusta distribuzione sociale.
La medicina narrativa dovrà imparare ad utilizzare storie di vario tipo, attingendo anche a quell’immenso archivio d’umane vicende che è la storia del cinema (a cominciare da quella narrata nella prima opera cinematografica di fiction avente per protagonista un medico: The Country Doctor, 1902, di David Ward Griffith).
Concludo con una citazione e due aggiunte.
La citazione è di Richard Horton, direttore di The Lancet, autore di Doctors in Society, un testo sul futuro della professione medica. Egli dice: ”La medicina di oggi è scissa. La sfida è trovare una soluzione per ricollegare il medico al paziente, un ponte che permetta di comprendersi a vicenda. Abbiamo bisogno di una nuova filosofia del sapere clinico”.
La prima aggiunta è di Rita Charon la quale commenta quanto affermato da Horton dicendo: “Tale filosofia è narrativa”.
L’altra aggiunta - alquanto speranzosa nel mentre certa brutta gente va smantellando il servizio sanitario italiano - è dell’autore del libro: ”Il cinema potrebbe risultare molto utile alla formazione di nuove generazioni di giovani medici umanisti”.

Stefano Beccastrini

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